GIORNO DELLA MEMORIA A BARCELLONA P.G. – SECONDA PARTE: CINEMA e SHOAH

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Proseguendo il lungo post precedente, dedicato all’incontro Visioni contemporanee della Memoria, ecco di seguito i due interventi successivi al mio, a cura degli altri due collaboratori e soci di Fumettomania Factory: Antono Nunzio Isgrò che ha parlato di Cinema e Shoah, e  Fabrizio Scibilia che ha descritto L’umorismo ebreo, l’Hiddish nel cinema.

Mario Benenati

L’olocausto raccontato dal cinema

di Antono Nunzio Isgrò

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In Italia, dobbiamo aspettare il 1960 per vedere il primo film che ricostruisce la drammatica realtà dei lager nazisti. E’ il caso di “Kapò” di Gillo Pontecorvo, con Emmanuelle Riva nei panni di una deportata che diventa caposquadra-aguzzina delle sue compagne. La pellicola si ricorda soprattutto per la scena del suicidio della Riva sul filo spinato elettrificato che scatenò le ire del regista Jacques Rivette il quale criticò l’uso spettacolare che, a suo modo di vedere, Pontecorvo fece di quell’immagine.

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Restando nel panorama della filmografia italiana sulla Shoah, tra il 1974 e il 1975 escono nelle sale due film importanti: “Il portiere di notte” di Liliana Cavani e “Pasqualino settebellezze” di Lina Wertmuller. Entrambe le pellicole mettono in primo piano il rapporto vittima-carnefice. La Cavani ci parla di un reicontro tra un ex deportata (Charlotte Rampling) e un ex ufficiale delle SS diventato portiere d’albergo (Dirk Bogarde) e del loro passato rapporto sadomasochistico durante il periodo dei campi di concentramento.
La Wertmuller ci racconta sempre di una vittima, Pasqualino guappo napoletano (Giancarlo Giannini) finito in un assai grottesco lager nazista, in cui cerca di sopravvivere da kapò cercando di sedurre la sovrappeso comandante del campo, interpretata dalla semi-sconosciuta Shirley Stoler.
Nel 1985 è la volta di “Shoah“, documentario inchiesta di 9 ore e mezzo (inedito in Italia fino al 2007) realizzato dall’intellettuale francese, Claude Lanzmann, che ha il merito di far parlare le immagini dei luoghi, ma soprattutto i testimoni, vittime e carnefici di quei luoghi, senza apparire retorico o indulgente.
Il 1993 è l’anno di due film, diversi per lancio commerciale ma uguali per la delicatezza con cui trattano la materia che vanno a raccontare: “Schindler’s List” di Steven Spielberg e “Jona che visse nella balena” di Roberto Faenza. Il primo narra la storia dell’industriale tedesco Oskar Schindler, che riuscì nel tentativo di salvare oltre 1100 persone dalla camera a gas; il secondo, tratto dall’autobiografia “Anni di infanzia” del fisico nucleare Jona Oberski, ricostruisce le vicende di quest’ultimo, deportato all’età di quattro anni insieme alla famiglia nel lager di Bergen-Belsen.
Rimanendo in Italia, non si può non citare il pluripremiato “La vita è bella” di Roberto Benigni. Il film, che nella seconda parte è ambientato in un campo di concentramento in cui le atrocità rimangono fuori campo, sceglie l’umorismo giocoso di un Benigni mattatore, che per il bene del figlio si sacrifica immolandosi in un finale tragico e assai chapliniano, in cui gli americani sono i primi liberatori.
Per concludere questa sintesi della lunghissima filmografia sull’olocausto è importante ricordare il documentario di Davide Ferrario, “La strada di Levi” del 2007. Ferrario con la collaborazione di Marco Belpoliti, ripercorre l’itinerario che Primo Levi percorse dalla fine del febbraio 1945 dal lager di Auschwitz. E’ un lavoro post-orrore, ma che ci ricorda, quanto fosse (quanto è!) presente la memoria di quei terribili giorni, mai troppo lontani soprattutto per chi li ha vissuti in prima persona.

Umorismo Yiddish e cinema sulla Shoah

L’intervento di Fabrizio Scibilia, direttore della rivista umoristico-satirica “lo Skarabeo”, all’incontro sulla Shoah organizzato dall’Associazione “Prisma” e tenutosi a Barcellona domenica 27 gennaio 2013, è partito da una “provocazione” semiseria, per cui tra i vari relatori proprio lui, Scibilia, potrebbe essere discendente da una famiglia ebraica, visto che il cognome, al di là delle evidenti trasformazioni nel tempo subite dalle trascrizioni anagrafiche, certamente proviene da un toponimo cittadino, e per di più spagnolo, Siviglia: e questo deporrebbe a favore di una radice anticamente ebraica dello stesso cognome, rimasto forse a designare una famiglia di ebrei della diaspora, come spesso avveniva per i cognomi riportanti nomi di città: dunque si tratterebbe di un cognome proveniente dalla città spagnola, magari in occasione della cacciata degli Ebrei dalla Spagna nel 1492, forse ulteriore riprova di quelle lontane ascendenze. Detto questo, partendo dalla propria personale esperienza di visitatore di alcuni luoghi della memoria (campo di concentramento di Dachau, Museo della Shoah di Berlino, museo della seconda guerra mondiale di Lione, cimitero ebraico di Praga), Scibilia ha riportato la sua impressione sulla fatidica domanda: perché tutto ciò è stato possibile? L’impressione è che, in seguito alla Rivoluzione Industriale, il progresso della scienza e dell’evoluzione tecnica non sia andato di pari passo con un adeguato sviluppo dello spirito collettivo, della coscienza umana di quei cambiamenti.

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La vena irrazionale che si è andata accompagnando allo straordinario incremento della tecnologia percorre tutto il XIX secolo, partendo da certe tendenze del Romanticismo e sfociando –passando per l’emergere ed il differenziarsi dei sentimenti nazionali in tutta Europa- nel Decadentismo nichilista, e disegnando un secolo non a caso filosoficamente attraversato dall’Idealismo hegeliano e della sua teoria dello Spirito Assoluto, per di più, allo scorcio del secolo, quando la civiltà borghese occidentale ed europacentrica cominciava a mostrare le prime crepe sotto la patina della

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“Bella Epoca” incipiente, interpretata alla luce della volontà di potenza e dell’anti-cristianesimo di Nietzsche. L’irrazionale ha caratterizzato l’antisemitismo nascente su cui scaricare il peso delle malattie sociali figlie dell’industrialismo: una paura del diverso –e dell’ebreo, per definizione anti-nazionalista, in particolare- che è già conclamata alla fine dell’Ottocento (come testimonia, nella “civilissima” Francia, il caso Dreyfuss), quando, infatti, comincia a nascere il sionismo. Un irrazionale che dà pian piano corpo ad una visione meccanicistica dello Stato, che funziona come una macchina evoluta, rispetto alla quale i singoli sono solo rotelle di un ingranaggio più grande e finalizzato ad un’Idea Superiore. Un vero e proprio parallelismo con le tante fabbriche che facevano da motore all’arrembante società industriale del tempo, alimentata, in un fatale corto circuito, dalla sempre maggiore volontà di potenza nietzschiana e dalle pulsioni nazionaliste, che si trasformavano in ambizioni revansciste e di predominio territoriale (la teoria tedesca dello “spazio vitale”). Da qui a sostenere primati di una razza sull’altra il passo fu breve, e rappresentò l’apice di quella temperie culturale che veniva da lontano. Che poteva dunque far dire all’esemplare burocrate dello sterminio Adolf Eichmann di avere solo eseguito degli ordini: affermazione che si può comprendere solo se si perde completamente l’umanità, ci si ritrova mere rotelle di un ingranaggio più grande, di uno Stato come “fascio” unico e indifferenziato di interessi che tendono ad autoaffermarsi senza più far distinguere il Bene e il Male del proprio agire. Lo Stato come catena di montaggio, insomma: o meglio di “smontaggio”, di chiunque sia considerato “diverso”. Ebrei in primis. In quest’ottica, l’intervento di Scibilia ha focalizzato la sua attenzione, considerato il tipo di giornale che è “Lo Skarabeo”, sull’umorismo ebraico –e Yiddish in particolare- come strumento di difesa dalle vicissitudini che la Storia ha riservato per il popolo ebraico, ed in particolare sui riverberi di quell’umorismo nel cinema sulla Shoah. Si tratta di un umorismo celeberrimo, divenuto ancora più noto grazie alla folta presenza nel mondo dell’industria dell’intrattenimento statunitense di alcuni esponenti importanti della cultura ebrea americana, fin dalla prima metà del secolo scorso (i fratelli Marx, poi Woody Allen o i fratelli Coen). Esso si fonda essenzialmente su una sottolineatura dei lati assurdi e contraddittori della realtà (a differenza dello specifico umorismo americano, tutto basato sull’overstatement, l’esagerazione tipica ad esempio dei racconti della frontiera). Inoltre è caratterizzato da un certo cerebralismo, da un lato, e dalla tendenza alla maschera, al travestimento dall’altro.

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L’umorismo diventa una chiave per leggere con senso critico il mondo che ci circonda, e dunque per recuperare l’umanità spesso schiacciata dal dominio dell’irrazionale e della paura dell’Altro. Gli esempi presi in considerazione sono stati tre film in particolare: Vogliamo vivere di Ernst Lubitsch (1942), Jakob il bugiardo di Peter Kassowitz (1999) e Train de vie di Radu Mihaileanu (1998).
Dalla presenza del travisamento e della finzione (nel film di Lubitsch e di Mihaileanu) alla costante dello Schliemel (nella cultura Yiddish il “matto” che spesso è anche indovino e rivelatore di verità), presente nei due film più recenti, alla ricorrenza del tema del “viaggio” e della contaminazione con altre culture perseguitate (come in Train de vie avviene per la cultura Rom), l’analisi sommaria dei tre film disegna un quadro che racconta di come, dietro l’enorme dramma vissuto, l’umorismo rimanga uno strumento di difesa formidabile dalle intemperie della Storia. Il che risponde alla domanda implicita che resta sullo sfondo di qualsiasi impegno a raccontare la Shoah: essa è realmente rappresentabile? Molte polemiche, negli anni, ha suscitato una certa maniera hollywoodiana di parlare di questo tema. E invece, a questo fine, proprio la chiave umoristica appare quella più vicina alle corde della cultura ebraica per rappresentare la Shoah, per sostenerne l’impatto narrativo, perché quella chiave proviene genuinamente dalla sua peculiare storia. E quindi rimane sempre come valida  lezione metodologica di approccio al mondo.