Jacovitti, Altan, Forattini e Giannelli sono tutti nomi conosciuti da noi fumettisti, perchè le loro vignette hanno accompagnato la nostra crescita e magari ci hanno fatto sorridere; ma la loro satira è stata incisiva? ha lasciato il segno?
Ecco una riflessione del nostro amico e, competente critico, Carlo Scaringi.
M.B. (31-07-2016)
La satira, ieri e oggi
di Carlo Scaringi
(riproposta. prima pubblicazione 03-05-2011)
E’ un luogo comune dire che in Italia c’è poco da ridere, ma si può aggiungere che invece si ride molto, magari a denti stretti. A ben guardare non c’è mai stata una fioritura di giornali umoristici come durante gli anni Trenta quando, al di là del superficiale consenso di cui godeva il regime, non c’era di che ridere. Lo stesso è accaduto dopo la guerra, con la nascita di molti periodici, più satirici che umoristici, da Don Basilio a Candido, quasi valvole di sfogo dopo un silenzio durato fin troppo. Lo stesso avviene in questi anni, con una straordinaria ripresa della satira, che scaglia nugoli di frecce contro un unico bersaglio, seppure non indifeso come il san Sebastiano della storia.
La satira di oggi è indubbiamente ricca di ottimi vignettisti, la maggior parte a senso unico. Ma è una satira epidermica, che anche quando colpisce il bersaglio non lascia il segno. Tutti ricordano il Fanfani tappo di spumante fatto esplodere da Forattini dopo la vittoria del divorzio, oppure i metalmeccanici di Altan protagonisti di incisivi dialoghi sui massimi sistemi politici degli anni Settanta. Forattini e Altan sono ai poli estremi della satira, tirano fendenti contro gli avversari, ma senza cattiveria, senza astio, forse senza neppure la violenza di altri vignettisti. Combattono su fronti opposti ma con una cavalleria che non si ritrova in altri autori, tranne forse il Giannelli del Corriere della Sera, quasi istituzionale, ecumenico e alla fine apprezzato da tutti, vittime comprese, che dopo un sorriso – amaro – continuano nei loro errori.
Una volta, un secolo fa, le vignette – quelle di Galantara sull’Asino o quelle di Scalarini sull’Avanti! – avevano spessore e soprattutto immediatezza, e forse restavano impresse nel ricordo dei lettori. Questi maestri del vignettismo politico non hanno mai messo in caricatura Mussolini, tranne poche occasioni, ma colpivano ferocemente le storture della società, la violenza del regime, lo sfruttamento colonialista, disegnando per esempio l’Africa come un teschio spolpato dagli europei, l’Italia circondata da alte mura come una prigione oppure due pensionati ai giardini pubblici che invidiano una coppia di passerotti perché – spiegava la didascalia – “essi mangiano”.
Tra i grandi disegnatori satirici possiamo inserire anche Jacovitti e Guareschi, oggi celebri per ben altri meriti. Nell’immediato dopoguerra il futuro papà di Cocco Bill si era cimentato in alcune storie satiriche su Hitler e sul nascente qualunquismo, come “Heil Flitt!” o “Battista l’ingenuo fascista”. Tra le tante caricature che costellano quelle tavole, un po’ folli ma non troppo, ce ne sono alcune contro i “cattocomunisti” che vanno in processione inalberando un vessillo con la falce e la croce al posto del classico emblema comunista. Lo stesso simbolo che quasi mezzo secolo dopo Forattini ha affibbiato a Prodi, parroco di campagna in processione come i cattocomunisti di Jac. Guareschi ha inventato Peppone e Don Camillo, efficace ritratto di un’Italia spaccata in due dalle ideologie, ma prima aveva creato una serie di vignette sull’”obbedienza pronta, cieca, assoluta” dei comunisti (“trinariciuti”, altra invenzione di Guareschi) che prendevano per oro colato quanto scriveva l’Unità, refusi compresi, con esiti di comicità folle come quella di Jacovitti. Evocare quel passato non è segno di nostalgia, ma solo un modo per tentare un confronto tra diverse scuole di satira. E l’esito è fin troppo chiaro.
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